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  Scilla e Cariddi
 
Scilla e Cariddi

Fra i miti più popolari sono Scilla e Cariddi, situate nello Stretto, cioè sul punto di passaggio obbligato degli antichi naviganti, che dalla Grecia volevano fare vela per Cuma.

Nell’Odissea di Omero troviamo la prima descrizione di essi:

Scilla è un mostro atroce e spaventevole, che abbaia e ringhia orribilmente, localizzata su uno scoglio di una rupe alta cento metri nella punta calabra. E’ munito di 12 piedi e di 6 colli smisurati, portanti ciascuno una testa mostruosa guarnita da un triplice giro di denti acuminati. Tale mostro, antropofago, abita una oscura caverna da cui sporge la testa cercando avidamente la preda. Fra le grinfie del mostro periscono 6 compagni di Ulisse.

Scilla, in greco Skylla, deriva dal fenicio “sol” cioè pericolo, o dalla radice greca “skul” con significato di cane o anche di squalo, e il verbo “depredare”. I cani urlanti nella cintura ricordano lo strepito particolare prodotto dalle onde che di continuo s’infrangono sotto le rupi cave.

Cariddi, ad un sol trar d’arco di Scilla, come dice Omero, è l’altro orribile mostro che tre volte inghiotte le acque del mare e tre volte le rigetta con muggiti, posta sotto il Promontorio Peloro.

Cariddi, dal greco per “vortice”, o anche dal semitico “Khar” per “foro”, “voragine”, sarebbe espressione derivata in tal caso dai navigatori fenici.  Avendo rubato i buoi ad Ercole, Cariddi per punizione fu da Giove trasformata in quel pericoloso gorgo dello Stretto di Messina, apertosi dalla saetta scagliata dal Nume. Nella leggenda omerica, le acque che inghiotte e rigetta sono il ricordo evidente dell’effetto ivi prodotto dal flusso e riflusso di marea. Cariddi si identifica col “garofalo”(in dialetto “galoffuru”), gorgo che si forma fra Capo Faro e Punta Sottile dall’incontro di correnti contrarie, corrispondendo perfettamente alla descrizione omerica che paragona quel mare ad una marmitta in ebollizione. Questo flusso e riflusso sarà altresì evidenziato da Dante nella “Divina Commedia”:   Come fa l’onda là sopra Cariddi che si frange con quella in cui s’attoppa.

Negli scrittori greci posteriori ad Omero ed in quelli latini, si nota una spiccata tendenza a rendere più umana la fiera implacabile di Scilla.

Virgilio, infatti, ci presenta Scilla con sembianze umane e forme di leggiadra donzella fino alla vita. Al di sotto, è orribilmente innestato un ventre di lupo ed una coda di delfino (fontana Nettuno del Montorsoli).

Ovidio la immagina come affascinante fanciulla col ventre ed i fianchi cinti di cani latranti.

Gli antichi poeti hanno anche intessuto, intorno al mito di Scilla, una triste vicenda d’amore soggetta a diverse interpretazioni. Pausania, infatti, narra che Scilla fu la perfida figlia di Niso, re di Megara. Essa facilitò la conquista straniera di terre soggette alla maestà paterna. Ma il vincitore non solo disdegnò di sposarla, ma la abbandonò alle acque del mare, che portarono il bellissimo corpo esanime ai piedi del promontorio della costa bruzia, cui fu dato il nome della fanciulla.

Per Ovidio, Scilla, la più bella fra le ninfe, custode del mar Tirreno, allieta i lidi col suono delicato della sua cetra. Per essa è pazzo d’amore Glauco, il giovane dio marino. Ma la ninfa schernendosi di tanta passione respinge le profferte dell’infelice amante. Il giovane allora si rivolge a Circe, perché con le sue magie incateni il cuore dell’amata. Circe, gelosa innamorata di Glauco, si serve invece dei suoi misteriosi filtri per eliminare la rivale e con una pozione avvelena le acque in cui la fanciulla è solita bagnare le sue delicate membra. Quando Scilla, cinta di cerulea veste, si tuffa nell’acqua, le sue forme gentili si contraggono orribilmente, e la ninfa prende l’aspetto di un mostro spietato con la coda biforcuta e le 6 bocche voraci.

Scilla ci appare, fin dai tempi omerici, in relazione col cane. Col cane accanto la troviamo rappresentata nelle monete di Turio, di Eraclea, di Taranto ed Ipponio.

Strabone vede in Scilla e Cariddi due covi di pirati e gli orrendi latrati, che tanti timori avevano suscitato nell’animo dei naviganti antichi, egli pensa che siano le onde, che fragorosamente si infrangono contro l’erta scogliera.

Con la creazione di questi favolosi miti, la fantasia greca non aveva fatto altro che circondare di arcano mistero i pericoli che realmente esistevano nello Stretto.

Il grande timore di coloro che affrontavano la perigliosa navigazione dello Stretto nell’antichità, possiamo dedurlo da un’iscrizione, posta da un marinaio, che nel cimento della vita aveva fatto voti a Nettuno:

 

  • Neptuno, sacrum
  • votum in Siculo freet:
  • susceptum, solvit.

    copyright 2008 - Testi e fotografie di Pippo Lombardo e Nino Principato - documentazione trovata su: http://www.messinaierieoggi.it/

     
 
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